domenica 28 agosto 2011

L'Angelo della Morte


La penombra domina su quel lungo corridoio. solo una esile lampada al neon sul soffitto cerca di portare avanti la sua epica battaglia contro il buio. Il rumore ritmico e, diciamocelo, anche un po' fastidioso delle continue scariche di corrente rompono il silenzio perfetto della notte. Provano ad eccitare quel poco gas ancora rimasto nel tubo della lampada, ma è una battaglia persa. Un po' una metafora dell'uomo moderno che vive in una costante guerra contro l'impotenza. Niente eccitazione, niente luce e la battaglia continua estenuante, snervante, inutile.
Di quei cento metri di cemento e piastrelle e porte e sedie e quadri rimane solo l'immagine impressa nella retina che subito dopo l'ennesima scarica sfuma nello scuro abisso della notte. Ombre e riflessi come fantasmi abbandonati si agitano sul fondo dei miei occhi come echi di tutte le persone che sono state qui, che qui hanno trascorso i loro ultimi giorni e che infine sono scomparse. Scomparse come nebbia al mattino e che adesso riappaiono tra gli sprazzi di vita di una lampada moribonda.
Sarebbe ora di cambiare quella lampada, e forse anche le altre due che si sono arrese al buio esalando il loro ultimo sbuffo di gas. Il problema è che dovrei farlo io, dovrei essere io a sostituirle. Ho qui sotto la scrivania le lampade nuove ancora dentro i loro imballaggi originali, mi basterebbe prendere la scala dallo sgabuzzino, svitare i vecchi tubi di neon e installare quelli nuovi. Un lavoretto da cinque minuti appena, ma questo significherebbe dire addio ai miei fantasmi, ai miei echi, alla mia vita. Quindi me ne rimango qui sdraiato sulla mia poltrona in poliestere e metallo, coi piedi appoggiati sul bancone a godermi lo spettacolo delle anime danzanti.

Qui di anime ormai ce ne sono davvero troppe. Se mi fossi preso la briga di raccogliere in una bottiglia, ampolla o barattolo le ultime esalazioni di tutti i pazienti che sono morti in queste camere, probabilmente adesso avrei una cisterna piena di anime. Una sorta di salvadanaio della vita umana, una raccolta degli ultimi istanti terreni delle migliaia di persone che qui sono venute a morire.
Il reparto Hemerton del Memorial Hospital non è un posto dove si cura la gente. Oddio, dipende da cosa voi intendiate per 'curare'. Qui vengono ricoverate tutte quelle persone per le quali non è più possibile fare nulla. Malati terminali di cancro, pazienti con malformazioni cardiache gravi che non sono risultati idonee al trapianto e così via, la lista è lunga. Dite una malattia grave e io l'ho vista. Abbiamo anche la sezione riservata alle malattie infettive gravi. Nel momento in cui varchi la soglia di questo corridoio hai già il cartellino bianco attaccato all'alluce del piede con sopra il tuo nome, la tua data di nascita e il mese e l'anno della tua morte. Manca solo il giorno, quello è variabile, ma di solito, se arrivi qui, non ti restano più di cinque o sei giorni di vita. Anche meno se io sono di turno.

E' la vita, l'intollerabile legge della vita: si nasce, si vive, si muore, cambiano solo le modalità. Nessuno può sottrarsene, si può solo sperare di vivere in maniera decente e morire senza troppo dolore, cose che qui di solito non si vedono, e quindi i fantasmi si accumulano e le anime si mischiano e si conpenetrano con l'aria appesantita e dolciastra che ogni notte continuo a respirare.
Odore pungente di pelle rancida che si mischia alle essenze di mughetto. Odore acre di vomito che si annulla nel profumo di pino selvatico. Odore metallico di sangue che si dissolve nell'aroma di violette. L'unica cosa che è rimasta da curare qui sono gli odori, e anche quello lo si fa più per i familiari che per i pazienti, per creare l'illusione che il caro estinto stia bene. Col pannolone pieno di merda fumante, con i polmoni pieni di liquido ormai viscoso, con lo stomaco pieno di ulcere e sangue, ma almeno non puzza, e tanto basta alla gente per rasserenarsi, per avere la forza di sorridere. La forza di sostenere il senso di colpa per quel distaccato disinteresse che progressivamente prende forma nei confronti di chi un tempo si è amato, odiato, sopportato e che ora è poco più di un impegno trascurabile su una agenda dimenticata chissà dove.

E' una reazione normale, un po' come andare a portare i fiori sulla tomba di uno che da questo reparto è già uscito. Poco più di un rito per sentirsi la coscienza a posto, per darsi l'illusione di non aver dimenticato. La sofferenza, quella vera, quella con le lacrime e i songhiozzi, con la disperazione che ti osplode dagli occhi e dal naso, quella la gente l'ha già vissuta. Un giorno arriva un dottore, uno vero, non come quelli che si aggirano per questi luoghi. Arriva e ti comunica che tua madre, tua nonna, tuo fratello o tuo figlio verranno spostati qui da noi al quinto piano. Ti dice che lo fanno per metterlo più a suo agio, per dargli conforto in questi ultimi momenti e tu all'inizio non capisci, pensi quasi di aver vinto alla lotteria. Gli daranno una stanza più grande che non dovrà condividere con altri pazienti. Avrà grandi finestre che daranno sul cortile interno e sul roseto. Avrà la TV e il bagno privato. Avrà tre pasti al giorno e su ordinazione. Quello che non ti dice ma che dopo poco capisci da te è che potrà godere di questo paradiso solo per pochi giorni, poi il letto verrà rifatto, le lenzuola verranno lavate, la composizione floreale sul davanzale verrà cambiata e un altro paziente occuperà la camera.

Nel momento in cui questo pensiero si fa strada nella tua testa, la consapevolezza di aver perso il tuo caro diventa una certezza. Quei pochi chili di carne e ossa sono solo il ricordo della persona che era un tempo e che ormai ti ha abbandonato. Da lì alla disperazione il passo è breve. Abbiamo uno psicologo interno che si guadagna lo stipendio semplicemente cercando di dare conforto ai vivi, mentre noialtri del reparto Hemerton cercheremo di dare conforto ai morti. E io questa missione l'ho presa sul serio. L'ho sposata e amata da quel lontano giorno di quattro anni fa.

La prima volta è sempre un incidente, mi avevano avvisato, ma pensavo fosse la solita solfa che si dice per spaventare i novellini. Sbagli a dosare la morfina, dimentichi di controllare che non ci siano bolle d'aria nella siringa, agganci male la sacca nuovo con la fisiologica. Capita a tutti, è un po' un iniziazione il tuo primo omicidio. Beh, non è proprio questo che viene scritto sul certificato di morte. Cause naturali. E' questo che diciamo ai parenti e loro di solito non fanno storie, non piangono nemmeno, erano già preparati. Dopotutto non è un grave errore, al massimo hai rubato un paio di giorni di vita ad una persona che non li avrebbe vissuti. Come rubare i broccoli dal piatto di un bambino, difficilmente nessuno se ne lamenterà, soprattutto non il bambino.

Nel mio caso dimenticai di aprire la bombola dell'ossigeno. Il respiratore si bloccò e madre natura fece il resto. Quando me lo dissero rimasi agghiacciato. Ero lì da pochi mesi e mi aspettavo una lavata di testa epocale e invece ricevetti solo una pacca sulle spalle e alcune parole di conforto. Cose che capitano. Rimasi ore a fissare quel corpo esanime che non voleva saperne di ricominciare a respirare. Mi aspettavo odio e ricevetti gratitudine. La nipote arrivò nel pomeriggio, cercai di spiegarle cosa era successo, mi sentivo in colpa ed ero pronto a costituirmi. Lei mi guardò con i suoi profondi occhi blu, si scostò una ciocca di capelli biondi da davanti alla bocca e con quelle labbra carnose pronunciò una parola che mi rimase scolpita per sempre nell'anima: "Grazie".
Non una lacrima, non un singhiozzo, neanche un insulto, solo un profondo e sincero ringraziamento. Avevo dato la pace ad una persona che se lo meritava. Cos'avesse fatto per meritarlo non l'ho mai saputo, ma io l'avevo salvata. Sono cose che ti segnano e che ti cambiano. I sensi di colpa erano spariti, come lavati via dal vento. Rimorsi, rimpianti, paure, tutto scomparso, come l'anima imprigionata in quell'ammasso di pelle e tumori. La mia prima anima. Mi sentivo onnipotente, mi sentivo realizzato. Avevo trovato il modo di adempiere alla mia missione, il mio modo di aiutare la gente.

Per definizione un serial killer è uno che ammazza la gente, ma quelli che arrivano qui sono già morti, quindi non è un vero e proprio omicidio, è più un modo per accorciare i tempi. Come quando si trova una soluzione per evitarsi di riempire montagne di scartoffie. Come quando si cerca di preparare un esame difficile studiando solo le dispense e i riassunti fatti da altri. La gente muore, è un dato di fatto, l'unica vera legge alla quale non si può sfuggire. Il vero assassino si macchia della colpa di aver sottratto l'esistenza o parte di essa a persone che avevano ancora qualcosa da dare al mondo o alla gente che li circonda e che li ama, li odia, li sopporta. Io qui non sottraggo niente a questi pazienti, non hanno più niente da dare al mondo se non escrementi e vomito. Anche i parenti delle mie vittime non si sentono privati di nulla, quello che avevano da perdere lo avevo già perso. Hanno solo bisogno di poter voltare pagina e io do loro il modo di farlo, di ricominciare a vivere la loro vita e di risparmiarsi altri giorni di affanno e di depressione. Sono loro i miei pazienti, quelli che a conti fatti posso davvero curare. Dopo il mio speciale trattamento ritornano a respirare, a sorridere, a vivere. Io do loro una nuova esistenza, e ogni tanto ci rimedio anche qualcosa. Il più delle volte una scatola di cioccolatini, un mazzo di fiori o un maglione, ma a volte anche qualche soldo e persino una scopata di straforo nello sgabuzzino. Negli ultimi quattro anni ho imparato ad amare questo lavoro.

***

Il quadro di segnalazione prende vita all'improvviso. Sotto il numero 14 inizia a lampeggiare furiosamente una luce bianca. Devo essere sincero, so a cosa serve quel quadro, ma mai lo avevo visto attivo, non ero neanche tanto sicuro che funzionasse. Di sicuro di giorno servirà a qualcosa, le infermiere vengono chiamate di continuo dai parenti dei cadaveri qui ricoverati per qualsiasi tipo di inezia, dal cambio del pannolone all'acqua per i fiori. Ma mai era capitato durante il turno di notte di vedere quel quadro illuminarsi.
Prendo la cartella con la lista dei degenti. La mia personale lista delle cose da fare, o meglio, delle persone da 'aiutare'. Scorro lentamente tra i nomi sul foglio e sul quale ancora non ho scritto il giorno e l'ora del decesso. Casualmente muoiono tutti durante il mio turno. La signora Perez ha ricevuto ieri la sua dose di varecchina. Il signor Joden ci ha lasciato col sapone per i pavimenti. Hellen della numero 6 ha scoperto che la CocaCola è meglio berla piuttosto che averla in circolo nel sangue. Il povero signor Rupert della stanza 9 credo abbia avuto qualche problema con delle bollicine d'aria nelle vene. La stanza numero 13 è il mio fiore all'occhiello, la signora Jensen si è ritrovata un grammo sano sano di acido lisergico nella sua fisiologica. Prima di morire si deve essere fatta uno di quei trip che neanche posso sognarmi.
La maggior parte dei nomi neanche me li ricordo. Sono solo numeri su una lista di cose da fare. C'è chi va a fare la spesa e chi dispensa morte, ad ognuno la sua specialità. Eppure il 14 proprio non me lo ricordo, la signora Madison ancora non ha avuto il piacere di incontrarmi e adesso sembra che abbia fretta di conoscermi.

La luce del quadro continua a lampeggiare insistentemente. I miei occhi ormai abituati ad una vita in penombra iniziano a fare male abbagliati da quella misera lampadina. Vediamo cosa vuole. Camminare per questi corridoi fa un certo effetto, nel silenzio quasi totale i miei passi sembrano quelli di un elefante nella savana. Il rumore da al cervello e sembra di camminare nel braccio della morte di un penitenziario nel giorno dell'esecuzione, sensazione che, per inciso, prima o poi temo dovrò provare. L'iniezione letale sarebbe l'ideale, quasi poetico, il classico cerchio che si chiude. Devo ricordarmi di proporlo al giudice che dovrà emettere la mia condanna, nel frattempo sarò io a decidere di che morte dovrà morire la signora Madison.
La stanza all'interno è buia e silenziosa. La porta si apre lentamente con un leggero cigolio. Mi aspetto da un momento all'altro le luci che si accendano e un nutrito gruppo di persone mi urla: "Sorpresa!" Poi però mi accorgo che sono tutti in divisa e con le pistole puntate verso di me. Devo decisamente rivedere il mio concetto di senso di colpa, non sono più tanto sicuro di non averne.
Con un filo di voce sussurro "Signora Madison?"
"Finalmente!" l'urlo arriva dall'altro lato della stanza e mi trapassa il cranio. Sento distintamente il mio cuore perdere diversi colpi, la testa gira mentre i brividi percorrono i miei muscoli improvvisamente tesi. Le vertigini sono la naturale risposta dell'organismo a qualcosa di imprevisto, inatteso e, soprattutto, indesiderato. Che sia un virus o qualcuno che ti fa prendere un colpo, la prima reazione è quella di sentire il pavimento girare mentre si perde l'equilibrio. Maledetta signora Madison.

Cerco con la mano l'interruttore e accendo la luce. La signora Madison è dall'altra parte della stanza nel suo letto che si copre gli occhi con un braccio.
"Che bisogno c'era di accendere la luce?" mi chiede con quel tono perentorio che non vedo l'ora di soffocare.
"Come potrei assisterla se non riesco a vederla?" rispondo io col tono più pacato che mi riesce.
"Non ho bisogno della sua assistenza" questo lo dice lei, a breve cambierà opinione.
"Allora come mai mi ha chiamato?" un po' di inutile conversazione non fa mai male, di solito i miei 'pazienti' sono tutti in coma o addormentati o ridotti a qualcosa di estremamente simile ad un vegetale.
Afferro la cartella clinica agganciata ai piedi del letto e scorro velocemente tra le varie note. La signora ha un tumore al pancreas con metastasi estese. Soffre di itterizia e arteriosclerosi. Perfetto, abbiamo nonna Simpson qui. Direi che la mia cura prevederà una soluzione di perossido di idrogeno al 30%. Nelle sue vene ci saranno dei veri e propri fuochi d'artificio. Una bella emolisi e tanti saluti alla signora Madison. Dovrebbero farmi impiegato del mese.

"Non voglio sapere di cosa sto per morire, lo so già" non mi piace ripetermi, ma questo lo dice lei, a breve cambierà opinione. 
"Voglio solo sapere se Jonathan è passato a trovarmi" e qui la sua voce si affievolisce, lo sguardo si abbassa, le guance si increspano come se fossero leggermente risucchiate all'interno della bocca, sulla fronte una fittissima ragnatela di rughe si contrae. Se al corso d'arte, uno dei tanti che ho abbandonato a metà, mi avessero chiesto di dipingere la tristezza, l'avrei rappresentata così.
Per queste cose paghiamo uno psicologo, non sono certamente io la persona più adatta a consolare un paziente, al massimo potrei dare una ripassatina alla nipote, ammesso che ce l'abbia e ammesso che sia carina, mah, in realtà non è così necessario che sia carina, mi basta sia disponibile. Devo ricordarmi di chiederle se ha una nipote, o forse potrei scoprirlo dalla cartella clinica.
"Adesso controllo" le dico e intanto mi faccio un po' di affari suoi, ma delle tante informazioni inutili riportate, nella cartella non trovo niente su parenti o visite. Niente nipotina ne informazioni su questo Jonathan.
"Jonathan sarebbe..." lascio morire la voce con la classica intonazione che nel linguaggio universale significa: completa la frase stupida vecchia. Alzo lo sguardo dalla cartella per sollecitare una risposta, ma lei non se ne accorge, con gli occhi rossi e lividi ormai è persa nei suoi ricordi, o almeno quei pochi che le restano.
"Jonathan è mio figlio" risponde lei con un filo di voce increspata dal pianto.

Appoggio la cartella al suo posto e mi avvicino al letto. Le chiedo "Ha per caso il suo numero di telefono? Posso provare a rintracciarlo" ma non ricevo risposta. Un rivolo di bava scende lentamente lungo la sua guancia e il suo respiro lento e regolare indica che si è addormentata. Adoro gli arteriosclerotici.
Beh, questa donna non si ammazzerà di certo da sola, qualcuno dovrà pur farlo, quindi vado in bagno a prendere l'acqua ossigenata. Mentre armeggio nel mobiletto dietro lo specchio alla ricerca del barattolo giusto, una confezione di pillole mi cade e si rovescia a terra. Tante piccole pastiglie si sparpagliano ovunque sul pavimento del bagno.
"Jonathan, sei tu?" la voce della signora Madison arriva un po' a singhiozzi. Mi affaccio dal bagno per tranquillizzarla e nonappena mi vede le pupille le si dilatano quasi nascondendo le sue iridi argentate, la fronte le si distende per quanto le rughe riescano a permetterle, le guance si tirano indietro creando due piccole fossette, le labbra le si tendono fino quasi a creparsi. Se al corso d'arte mi avessero chiesto di dipingere la felicità, l'avrei rappresentata così.

"A dire il vero io..." provai a dire lasciando morire la voce e accennando a voltarmi verso il bagno. Gesto che nel linguaggio universale significa: e adesso che mi invento?
"Accidenti, mi hai fatto proprio sospirare, avevo così voglia di rivederti prima di tirare le cuoia" neanche raccogliendo tutto il cinismo e l'astio nei confronti della vita che mi scorre nelle vene riesco a disilludere tutta quell'aspettativa. Per la prima volta ho l'occasione di curare almeno l'anima di uno dei miei pazienti, dei miei fantasmi. Certo magari eviterò di scriverlo nel curriculum, ma potrebbe essere un modo interessante per ammazzare almeno la noia.
"Scusami... mamma... c'era traffico" non sono mai stato bravo ad inventare balle.
"Oh, non ti preoccupare, l'importante è che tu sia qui adesso. Vieni a sederti" e con la mano indica la sedia accanto al letto. Lentamente esco dal bagno e con il barattolo di acqua ossigenata ancora in mano mi dirigo verso la sedia. Accanto a me, sul comodino, alcuni effetti personali della signora ed una foto incorniciata. La prendo e la guardo distrattamente, è la foto di un bell'uomo giovane in giacca e cravatta, probabilmente Jonathan. Jonathan, Jonathan, Jonathan. Perché mi ricordo questa faccia? Se ne ho memoria io non è buon segno. Difficilmente mi capita di incontrare gente al di fuori dell'ospedale. Coi turni che faccio, durante il giorno dormo e le notti le passo sempre qui dentro. Vita alienante ma tranquilla. Non mi piace la confusione del mondo esterno, preferisco la pacata calma dei miei fantasmi. Jonathan, dov'è che ti ho già visto?
"Ancora trovi il coraggio di prendere la macchina dopo quel brutto incidente? Te l'ho detto un sacco di volte che devi andare in giro con i mezzi pubblici" questo spiega tante cose. Buffo, il parente che stavo per curare in realtà è già stato mio paziente. Jonathan l'ho ammazzato io.

La luce rende lucido il vetro della cornice e il riflesso del mio volto si sostituisce all'immagine di Jonathan. Il mio sguardo è vitreo, quasi inespressivo, la barba incolta, le mascelle serrate e le orecchie arrossate. Se al corso d'arte mi avessero chiesto di dipingere i sensi di colpa è così che li avrei rappresentati. Il peso delle mie azioni, delle mie certezze e delle mie convinzioni è improvvisamente troppo grande da sorreggere. Le vertigini sono la naturale risposta dell'organismo a qualcosa di imprevisto, inatteso e, soprattutto, indesiderato. Faccio per posare la foto sul comodino ma manco l'obiettivo e la cornice si infrange per terra. Jonathan continua a sorridermi attraverso i frammenti del vetro.
"M-mi dispiace, non volevo... mi è scivolata".
"Oh, non ti preoccupare, adesso che sei qui non mi serve una stupida foto" dice lei. Io non riesco a fissarla negli occhi e non riesco neanche a balbettare nulla. Non riesco a vederlo, ma percepisco il suo sorriso benevolo, il sorriso ignaro del male che le ho fatto. Cerco di farmi forza e recuperare la lucidità. In mano ho ancora la boccetta di perossido di idrogeno. La morte è un vincolo universale, prima o poi tutti gli andiamo incontro e nessuno vi si può sottrarre. Non credo in un aldilà ne nella reincarnazione, ma il cerchio si deve chiudere e volente o nolente è mio dovere far ricongiungere la madre al figlio perduto. Almeno è quello che mi ripeto come un mantra per convincermi che quello che sto per fare è giusto e corretto. Allora perché le mani mi tremano mentre prelevo il liquido trasparente con la siringa? Una goccia mi bagna il dorso della mano e mi chiedo come abbia fatto a versare il contenuto della boccetta senza accorgermene, alla fine mi rendo conto che non è acqua ossigenata ma una lacrima, una mia lacrima.

"Perché piangi piccolo mio?" mi chiede la signora Madison.
"Perché devo fare una cosa, ma non sono sicuro di volerla più fare" le parole mi escono da sole dalla bocca. Piango come un ragazzino che si è appena sbucciato un ginocchio e abbasso la testa fino ad appoggiarla sul materasso. Sento frotissimo l'odore acre di bile e pelle morta, mi chiedo dove sia l'essenza di mughetto. La mano della signora accarezza i miei capelli radi e riesco a sentire il suo tepore che mi scalda fin dentro l'anima.
"Quando avrai fatto questa cosa potremo finalmente stare insieme per sempre, giusto? Allora che aspetti?" Mi alzo a guardarla negli occhi. Vivi e vispi come non ne avevo mai visti in questi letti. Lei non è un mio paziente, non deve essere un mio paziente, non voglio che sia un mio paziente, ma non ci si può sottrarre alla legge della vita e della morte. Nessuno è immune dal decadimento, non ci sono sensi di colpa che tengano. Il respiro si fa lento, la forza abbandona il corpo e poi c'è soltanto l'oblio. Potrei scappare da tutto questo, voltarmi, cambiare lavoro, tapparmi in casa per il resto dei miei giorni, eppure è più forte di me. Quando ti spingi oltre un limite ormai non puoi più tirarti indietro e ripensarci. Sono un drogato in cerca della sua dose di morte. La sensazione di onnipotenza e superiorità che ti si scarica nel cervello quando sai di essere il responsabile della vita e della morte altrui, questa è la mia droga, questa è la mia vita. Una vita che non voglio più, che non riconosco più, che devo combattere. Ma cosa cambia poi? Questa donna morirà comunque tra qualche giorno perdendo ogni barlume di dignità.
Ci risiamo. Prima avevo gli altri a giustificare le mia azioni e ora mi giustifico da solo. Sono un caso disperato. E mentre lo stantuffo della siringa spinge la soluzione letale nella flebo, la signora mi sorride e mi dice "Grazie".


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